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Caro Renzi, né lanciafiamme e né rottamazione

Quando all’alba di stamane ho sfogliato la rassegna stampa che sfoggiava l’intervista del lìder Maximo sull’imminente tracollo della stagione renziana, alla guida del Paese e del PD, complice il clima pienamente estivo, ho ricordato le lunghe estati torride che, in adolescenza e in gioventù, precorrevano i congressi degli allora Democratici di Sinistra. Una liturgia tanto semplice quanto ordinata nei minimi dettagli: interviste, dichiarazioni, smentite, contro-interviste, editoriali, tanto da cadenzare i mesi estivi dettando l’agenda delle feste de l’Unità,dei campeggi, delle birre ghiacciate in notturna e finanche dei falò agostani. Ed in sottofondo mi è parso finanche di ascoltar Eskimo di Guccini, “con l’ incoscienza dentro al basso ventre e alcuni audaci, in tasca “l’Unità“, la paghi tutta, e a prezzi d’ inflazione, quella che chiaman la maturità…” Il punto è che abbiamo tutti qualche anno in più. E se anche la narrazione del Presidente del Consiglio degli ultimi mesi appare lontana e ben diversa dalla realtà, almeno da come essa è percepita nelle periferie del Paese, certe ricostruzioni hanno il sapore vintage della malinconia che può anche affascinare, ma dura davvero pochi minuti. Si sa anche questo è il prezzo della maturità. Può apparire al massimo surreale, infatti, che a porre il tema dell’aderenza alla realtà possa essere il massimo esponente di una classe dirigente, Bersani nella giornata di ieri, che pretendeva di parlare al Paese attraverso la retorica dello “smacchiamento del giaguaro”.

Per quella stagione abbiamo già, collettivamente, pagato un prezzo. L’idea che si debba procedere verso il cambiamento attraverso una sorte di restaurazione è tipico di tutti i corsi storici e politici. Ed è esattamente quello che il Segretario del Partito farebbe bene ad evitare per il bene del PD stesso. Accerchiato dagli esegeti dello “ciaone” e costretto da una spartizione correntizia degna di un mediocre partito anni ’80 a sacrificare anche la semplice dignità del Partito a Napoli e Roma, il rischio di concedere spazio all’affascinante idea che ci si possa salvare facendo un balzo temporale all’indietro rischia di essere, questo si, esiziale. Non servirebbe né il lanciafiamme né una maggiore dose di rottamazione. Servirebbe riprendere le fila di ragionamenti che avevano animato la stagione delle primarie, prima perse sul finire del 2012 e poi vinte qualche tempo dopo. Nei temi dell’azione politica e nelle modalità di gestione del “potere” che appaiono, in taluni casi, davvero ricondotte ad esclusivi club di amici e fidati collaboratori vissuti dal corpo strutturato e capillarmente diffuso del Partito spesso come elementi estranei se non addirittura ostili. Il problema non è il PD in sè.

È il Partito per quello che è oggi, inteso come struttura, funzioni, modalità di discussione e filiera delle scelte che non è stato in alcun modo riformato, nemmeno minimante ristrutturato dall’avvento alla sua guida dell’attuale Premier. Eppure andava semplicemente rivoltato come un calzino. Su questo, prima di Roma, Milano o Torino appare evidente che la misura del fallimento sia Napoli, dove un trasformismo di antica tradizione ha stratificato e consolidato l’irresponsabilità e l’ignavia come modus operandi dell’agire politico, finanche rispetto a sospette infiltrazioni di apparati criminali. Altro che “Progetto e radicamento popolare” che sollecita Romano Prodi in una saggia e parallela intervista a La Repubblica. Quello degli ultimi mesi è stato un partito privo di progetto e smarrito nel suo radicamento popolare, esattamente l’antitesi di quello che la prima narrazione renziana ci aveva prospettato e rispetto alla quale, agli albori dell’estate 2016, continuo a nutrire fiducia. Così coraggioso nel programma di Governo ed ambizioso nelle riforme, seppure con evidenti limiti che solo adulanti narratori di corte non riescono a cogliere, e così conservatore e passivo nella gestione del Partito. Il tempo è evidentemente poco per sterzare in tempo prima dell’appuntamento di Ottobre. Ma è in queste torride settimane che il Segretario del Partito può determinare le condizioni per tirare fuori il PD dalla palude o decretarne la crisi e l’avvio di una stagione congressuale che rischia di essere il viatico per il definitivo tracollo.