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SanremoconMarzia, cronaca ‘elegante’ della prima del Festival

Baglioni si dimostra profondamente intelligente, con la scelta di mollare a un Fiorello in formissima l’apertura del 78esimo Festival di Sanremo. Scaldapubblico d’eccezione, interloquisce con l’invasore del palco (invenzione di Pippo Baudo, ricordiamolo sempre), si cimenta in un “giù le mani e su le mani” degno dei tempi in cui faceva l’animatore nei villaggi turistici, fa un mash up incrociato dei successi di Morandi e Baglioni, invertendo testi e melodie, perfetto.

Dopo l’orribile sigla di apertura, si riaccende un barlume di speranza, che si infuoca con Favino, bellissimo in Armani e la Hunziker, bellissima sempre, che non si perde in chiacchiere e presenta la prima cantante in gara: Annalisa: per la quarta volta a Sanremo e tutti si chiedono perché.

Dura fortunatamente poco, lasciando spazio a Ron e alla sua esibizione di un brano scritto da Lucio Dalla: impossibile rimanere obiettivi, è palpabile un senso di suggestione profondo, nonostante trattasi di un evidente scarto di Dalla, ma… in fondo, che problema c’è? A sugellare il momento, dirige l’orchestra Beppe Vessicchio.

I Kolors, tra le grandi promesse di questo festival, si mettono alla prova con un bel testo in italiano, inciampando su uno dei principi fondamentali: non si comprendono le parole. Presenza scenica di chi mastica palchi da anni, bel sound e Stash che ci regala un assolo ci fa sentire tutti un po’ più rock. Registrata è sicuramente destinata a diventare un tormentone.

Arriva Gazzè, ormai fuori dal suo periodo dark, con un testo meraviglioso, con una bella musica, che però non fanno una canzone da Sanremo, nè da radio. Perdoniamolo, fosse solo per “Ti aspetterò, foss’anche per cent’anni io ti aspetterò”.

Due tra le migliori penne in circolazione, Bungaro e Pacifico (quest’ultimo scrive almeno tre delle canzoni in gara quest’anno) accompagnano Ornella Vanoni: come solo una diva può, arriva vestita di bianco da Antonio Riva, non si risparmia, è presente e rende un testo non eccezionale toccante. I suoi ottantaquattro anni sono un dato da cui non si può prescindere.

Fabrizio Moro e Ermal Meta, sulla carta un bel pezzo, che però non parte, non travolge, un testo che prometteva lacrime e che ora è anche momentaneamente sospeso perchè troppo simile a “Silenzi”, presentata per Sanremo giovani nel 2016, scritta da uno dei coautori di “Non mi avete fatto niente”. Indagini in corso.

Mario Biondi sbaglia dove non avrebbe mai dovuto sbagliare, con un pezzo brutto, trasformandosi nella sua imitazione esagerata.

Raggiungiamo un momento topico: Fogli e Facchinetti, due ex riuniti in gara contro un altro ex, ci regalano un pezzo ai limiti dell’imbarazzo e una performance che valica quegli stessi limiti. Nella sfida intestina con Red Canzian vince senza dubbio il neo scrittore di matrice vegan che, almeno, conserva una voce dignitosa e una sempre più improbabile varietà di giacche terrificanti.

Dopo questa ventata di nostalgia canaglia, arrivano i GGiovani: Lo Stato Sociale riempie il palco di colori e di riferimenti cool a Instagram, testo molto ruffiano e talmente nazionalpopolare (nell’accezione più moderna, e quindi la capacità di un pezzo di trasformarsi in #hashtag) da rendere difficile credere che loro sono quelli indie. Ma del resto, come ci insegna Fabi, “è poi felice chi è indipendente da tutto?”.

Noemi, veterana di questo palco, ci dedica un’esibizione con poco brio, molto lontana dai momenti graffianti e cazzuti (si può dire cazzuti?) a cui ci ha abituato, il pezzo è carino e si lascerà cantare, come al solito, nei momenti di sconforto misti a rabbia.

Altissime le aspettative sui Decibel che, come quasi sempre accade, le deludono. Un pezzo di cui forse si poteva fare a meno.

A proposito di aspettative altissime, Elio e le storie tese meritano una precisazione: ci hanno abituati a performance sorprendenti, sul palco dell’Ariston (vedi, per citarne una, “La terra dei cachi” in playback) e quindi per il loro addio procrastinato da mesi, speravo in qualcosa di eccezionale. Mi auguro che le prossime esibizioni saranno migliori, non vorrei proprio doverli ricordare così.

Caccamo porta un pezzo iperpop, forse un po’ troppo vecchio stile ma che, probabilmente, cantato che so, da Renga potrebbe diventare un successo. Così è “gnini” – citando i The Jackal – ma, considerando l’andazzo della serata, non possiamo chiedergli troppo di più.

La marchetta di Muccino e dei suoi di “A casa tutti bene”, che intonano Bella senz’anima con Baglioni al piano, risulta un “famo caciara” ma ricordiamoci comunque che siamo radical chic. Barbarossa che ricorda sicuramente Mannarino (e un po’ tutta la tradizione del centro Italia, se proprio dobbiamo essere precisi), ci regala un testo malinconico e pieno di tenerezza, che può funzionare. Esibizione un po’ scialba, ma era da tanto che il Luca nazionale non si vedeva in giro, migliorerà senz’altro.

Secondo momento topico della serata, l’entrata in scena di Morandi, che certamente ha firmato un patto con qualche diavolo potentissimo, più energico e consapevole di se stesso di tanti altri, regala al modestissimo Tommaso Paradiso la prima volta sul palco più importante d’Italia. Il vero vincitore di Sanremo, oggi, è proprio lui: non in gara, non come superospite, ma come autore e partner di un duetto con sua maestà, nel bel mezzo della prima serata. Bravo.

Diodato e Roy Paci con ottime intenzioni, con un bel pezzo e una buona resa. Ma loro sono bravi, ce lo aspettavamo.
Il testo un po’ paraculo sulle donne e la loro bellezza e magia e blabla, con una melodia molto (forse troppo) classica, tolgono a Nina Zilli la verve delle sue sonorità: la preferiamo irriverente, blues e sexy.

Enzo Avitabile si fa accompagnare in un pezzo che sa di mare, di fuoco e di terra – non solo dei fuochi – dal meraviglioso Servillo, che divora il palco con il suo solito charme e enorme talento.

Francesco Sarcina, con le sue Vibrazioni, torna dopo molti anni a Sanremo e ci dice, molto chiaramente, che la presenza scenica, il ritmo e il groove si possono studiare, certo, ma se ce li hai nel sangue sei credibile, e molto molto figo, anche un po’ invecchiato e anche “Quando mi sento figlio e sono un padre”.

La classifica demoscopica viene rappresentata in tre “gironi” e resta fedele a se stessa, facendoci chiedere, come ogni anno: “Ma chi c’hanno messo, ma sono tutti ubriachi?”