Segnala a Zazoom - Blog Directory

A te e famiglia! Elogio natalizio di tutti i focolari “irregolari”

“A te e famiglia” è stato ed è ancora il meme-tormentone di questo Natale social e, legittimamente, di ogni Natale tradizionale. Già, ma quale famiglia? Se proprio vogliamo scherzare con i santi, e proprio il giorno di Natale (condannati tuttavia a restare innocui epigoni della sfolgorante irriverenza del Papa Giovane di Paolo Sorrentino…), dal punto di vista antropologico e sociologico, quella formata da San Giuseppe, Maria e il Bambino è stata una famiglia con numerose “irregolarità” e vicende relazionali e politiche tutt’altro che lineari: Giuseppe, di professione téktón, vale a dire carpentiere, scalpellino, era molto più grande d’età di sua moglie e la sposò, forse in seconde nozze, che lei era già incinta, perdonate la blasfemia, “di un altro”, dopo avere pensato bene, per questa ragione, di mollarla durante il fidanzamento.

Per questa famiglia in divenire, sacra almeno quanto tutte le altre, certamente proletaria e monoreddito, comincia poi l’odissea degli esodi, delle peregrinazioni, delle migrazioni forzate: la prima, la gravidanza di Maria agli sgoccioli, verso la città d’origine di Giuseppe, per via del Censimento di Quirino, imposto da Roma agli abitanti della regione; durante il viaggio Maria e Giuseppe, fino a quel momento coppia di fatto, si sposano a Betlemme dove, come è arcinoto, la ragazza darà poi alla luce il Bambino. Dopo nemmeno due anni di pace nella piccola città in Giudea, la famigliola è costretta ad un nuovo esilio: è la fuga in Egitto, in conseguenza dell’editto col quale  Erode Ascalonita  (73 a.C. – 4 a.C.) re ebreo tollerato dal colonizzatore in quella prefettura della provincia romana in Siria, ordinò la strage degli innocenti (corsi e ricorsi…), vale a dire il massacro di tutti i bimbi della zona dai due anni in giù, in ossequio all’avviso dei sommi sacerdoti che tra quei piccoli si nascondeva il māšīāḥ, il prescelto, non solo ad illuminare gli animi ma pure a liberare i popoli dagli oppressori, da tutti gli oppressori, che poi è la stessa cosa. Tornata in Giudea dopo la morte di Erode, la Sacra Famiglia si stabilisce stavolta a Nazareth e fa per un po’ una vita normale, nell’attesa inconsapevole che quel figlio speciale sbocciasse in tutto il suo inconsueto, verticale splendore: succede durante un certo viaggetto a Gerusalemme per Bar mitzvah del ragazzino, al ritorno dal quale Cristo dodicenne pensò bene di seminare i genitori e trattenersi un giorno in più, da solo, nella capitale della regione. Maria e Giuseppe si accorsero dell’assenza di Gesù che erano già quasi rientrati a Betlemme; così, furono costretti a tornare indietro fino a Gerusalemme per capire che fine avesse fatto quel bimbo inafferrabile: lo trovarono, dopo tre giorni di spasmodiche ricerche, placidamente seduto al Tempio, a discutere della natura di Dio coi dottori in teologia. “Figlio, perché hai fatto così? Ecco, tuo padre ed io, angosciati, ti cercavamo”, gli domandò allora esterrefatta la sua mamma: “Perché mi cercavate? – la risposta del preadolescente – Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?”. Il resto è Storia e fede, è tempo di Pasqua ed è soprattutto uno dei più begli affreschi proiettivi coi quali lo spirito umano abbia mai rappresentato sé stesso e la sua vocazione immortale.

Per la mia generazione in giro per il globo (io sono del 1981 dunque, secondo gli esperti, dovrei collocarmi tra gli estremi scampoli della Generazione X, che comprende convenzionalmente quelli nati tra i primi Sessanta e i primi Ottanta, e l’alba della Generation Next, in qualità di sorella decisamente maggiore dei  Millennials o Echo Boomers, che sono quelli nati negli anni duemila), le parole “famiglia”, “relazioni”, “legami” cominciano a oscillare dentro un novero sempre più fluido di definizioni e, cosa più importante, di contesti. Partiamo da un dato, per dirla come i giornalisti veri: l’ultimo rapporto Istat sul mercato del lavoro in Italia, pubblicato il 7 dicembre scorso (e relativo al III trimestre 2016, vale a dire il periodo da lunedì 4 luglio a domenica 2 ottobre) dice che la crescita occupazionale di questa fine d’anno, comunque inferiore a quella del trimestre precedente, riguarda quasi esclusivamente i rapporti di lavoro a tempo indeterminato con over 50enni, soprattutto donne. Sono state in altre parole messe a posto le eterne precarie, per le quali la regolarizzazione era molto probabilmente irrimandabile per termini di legge, per quello che significa. Sui contratti a tempo, che riguardano invece soprattutto i miei coetanei in senso stretto, non s’è mossa una foglia (mentre l’impiego di voucher registra un +32%, come informava l’Inps a luglio, nell’ambito del rapporto annuale 2016) , e infine freelance, portatori di partita IVA e liberi professionisti stanno gradualmente ma inesorabilmente mollando il colpo. Diminuisce il numero degli inattivi, e questo è forse leggibile come un segnale di reazione bello e motivante (ma al Sud i NEET, l’acronimo inglese che designa i “Not (engaged) in Education, Employment or Training”, vale a dire quelli che non studiano, non lavorano e nemmeno sembrano avere un progetto ed essere in cerca, sono il 35,3% rispetto al 18,4% del Nord, sempre per Inps); ma pure questo poco d’entusiasmo  per il dato sugli inattivi sprofonda quando leggiamo le evidenze dello scarto tra il Nord e il Sud del nostro paese: il Mezzogiorno gira al doppio dei disoccupati, e per le donne va naturalmente da mediamente peggio a molto peggio. Un dato strutturale e ampiamente culturale, che si colloca dentro una prateria di illegalità diffusa, sottile o clamorosa, devastantemente introiettata dai più. Di contro, questo scenario desolato registra addirittura un aumento dell’impegno volontario, oltre che il fenomeno globale dei populismi o cosiddetti tali, che pare parlarci di un potenziale di risposta, di un desiderio di partecipazione potente, per quanto troppo spesso magmatico, insipiente e scomposto, che le narrazioni più strutturate non sembrano essere in grado di intercettare.

“Star Wars: Madagascar in famiglia” (Ph.Enrico Pescantini)

Ora, le relazioni, tutte le relazioni umane, risentono di queste condizioni, e questa non credo sia una novità assoluta del nostro tempo; quando l’autostima delle persone è colpita tanto profondamente, mettersi tutti interi davanti all’altro da sé è esperienza durissima. E così, nel caso delle relazioni governate dal desiderio e dal sentimento, ad uscirne fiaccato è l’equilibrio tra i generi o comunque tra i ruoli, qualunque significato intendiamo dare ancora a questa parola dentro la dialettica erotica, intesa nel senso più ampio possibile. L’amicizia rischia invece di diventare il luogo emotivo dell’indulgenza a oltranza, dello straniamento, dello scollamento irresponsabile, dell’opportunismo. Persino i rapporti coi consanguinei si tendono e si sfilacciano dentro la sensazione costante di essere tutti fuori tempo. Bisogna stare sorvegliatissimi per conservare il rispetto di sé stessi e allo stesso tempo non rinunciare a tentare di legarsi in maniera autentica alle persone.

Qualche giorno fa ho pubblicato sul mio profilo Facebook un’intervista che D – la Repubblica ha realizzato con Emily Witt, giornalista newyorchese (classe 1981 pure lei) in odore di femminismo, che ha firmato il volume “Future Sex” (che uscirà in Italia ad aprile prossimo, per i tipi di Minimum Fax). Chi scrive non ha ancora letto il libro, ma l’intervista anticipava temi di interesse assoluto, al di là del grado di onestà intellettuale piuttosto che di sensazionalismo col quale questi sono stati eventualmente trattati dall’autrice. Nel titolo del libro si fa esplicito riferimento al sesso ma, almeno a giudicare dall’intervista (http://m.repubblica.it/mobile/d/sezioni/lifestyle/2016/12/05/news/monogamia_come_fare_sesso_futuro-3310490/), al centro dello sforzo d’inchiesta della Witt sembrano esserci le relazioni nella loro complessa interezza. Nel suo documento la Witt racconta una serie di esperienze erotiche vissute sulla pelle, ma prova a distillare queste esperienze in interrogativi più ampiamente culturali; è il caso, ad esempio, delle relazioni più o meno liquide, e comunque non “vincolanti”, delle quali l’autrice dice: “Una questione importante cui ho cercato di rispondere proprio nel libro è come si possa provare un senso di intimità, stabilità emotiva, e sentimento di appartenenza mentre si vive una fase di relazioni a stretto termine e senza impegno di alcun tipo. Molti di noi hanno vissuto in queste situazioni per mesi o anche anni. Oggi credo che ci sia molto valore in questo tipo di rapporti che la società tende a vedere come scadenti o di poco conto: per me invece è stato molto interessante capire cosa sarebbe successo se avessi cominciato a pensare ad essi come rapporti di valore, e descriverli con maggiore accuratezza. Senza vederli, appunto, come una fase transitoria ma, per esempio, come un modo permanente di stare al mondo”. Una rivoluzione copernicana, nel senso dell’apertura mentale e  dell’arricchimento, di certo non sempre possibile: tutto continuerà a dipendere comunque dalla qualità umana di quelli che incontriamo, e dalla spinta endemica, dal respiro, di ogni relazione. E quando ci sono dei figli? “La sfida attuale è proprio questa: – continua Witt – come creare famiglie, stabilità emozionale e spazi sicuri in cui crescere figli in una società in cui così tante persone credono che il matrimonio sia dal lato sbagliato della storia e stanno esplorando un’ampia gamma di amicizie amorose per lunghi anni della loro vita. Io non riesco a vedermi sposata, ma vorrei sviluppare relazioni che evolvano nel tempo. Vorrei definire i termini di questi impegni oltre la monogamia sessuale: come lei ha detto, in Italia è così che molti matrimoni funzionano, come una fedeltà formale e storie extramatrimoniali. Cosa accadrebbe se queste storie potessero avvenire apertamente, senza tutte le ipocrisie e i doppi sensi?”.

Ci sono numerosi punti che non mi suonano in questo ultimo passaggio della scrittrice americana: ad esempio, non credo che “il matrimonio sia dal lato sbagliato della storia”, soprattutto perché penso che nessuna forma-relazione stia aprioristicamente “dal lato sbagliato della storia”; inoltre, i temi della fedeltà e del tradimento, della strutturazione dell’identità attraverso di esso e dell’oscillazione con l’Altro e nell’Altro sono, da Hillman a Carotenuto passando per lo splendido “The fire and the rose” (“The wedding of spirituality and sexuality” è il sottotitolo, per capirci) dell’analista junghiano statunitense Bud Harris, estremamente più complessi di questa trita visione da casa di vetro che la Witt propone. Tuttavia restano importanti, nelle parole della scrittrice di New York, i motivi della consapevolezza del proprio desiderio e della cura autentica per le relazioni, per tutte le relazioni. È il caso dell’argomento “internet, i social e gli incontri”, e qui la tematica fa presto a sfuggire al “mero” ambito del trovarsi per scopi più o meno esplicitamente erotici, per andare ad alimentare una riflessione più generale sul valore delle interazioni umane: “la tecnologia ci ha permesso di incontrare persone o di trovare comunità di simili con una facilità e comodità mai possibili finora. Come mezzo per conoscere persone, gli appuntamenti tramite internet e i social network sono eccellenti. Ciò che metto in dubbio è la tesi per cui queste app abbiano cambiato tutto – l’idea che, insomma, improvvisamente stiamo vivendo in maniera drasticamente diversa a causa di Tinder. Non credo che sia così facile, e una volta che due persone sono sole in una stanza non c’è applicazione che abbia detto loro che tipo di aspettative avere, come comportarsi, che natura abbia la loro relazione. Tocca ancora a loro definirla.”; e tocca ancora a loro, a noi, stabilire con quali scopi e in che misura introdurre, utilizzare, integrare gli strumenti della tecnologia nel puzzle dei rapporti.

E non è solo questione di fare durare le amicizie, i rapporti di business, le storie o tenersi il più a lungo possibile gli amanti che ci piacciono: è questione di tutelare la vita e il benessere psicologico  delle persone, perché di inconsapevolezza, parafilie e derive narcisistiche dentro e fuori la Rete si muore, letteralmente: ce l’ha ricordato quest’anno il tragico suicidio di Tiziana Cantone, morta lo scorso settembre a trentun anni per una storia di “revenge porn” (vale a dire di porno-vendetta), con la consegna al web intero di un video nel quale la si vedeva fare sesso con un ragazzo diverso dal compagno, un video realizzato forse proprio per accontentare le fantasie da “cuckold” del suo fidanzato (il cuckold è l’uomo che ama o che semplicemente non può fare a meno, per eccitarsi sessualmente, di guardare, da vicino o per procura, la propria partner fare sesso con altri uomini, dentro un articolato reticolo psicologico di dominazione, sottomissione, controllo; esiste anche il corrispettivo a parti invertite, la “cuckquean”). Ora, c’è un numero inimmaginabile di coppie nell’ambito delle quali uno dei due membri è un cuckold o una cuckquean: parliamo di relazioni clandestine ma anche, e forse soprattutto, di legami stabili, di matrimoni che consumano queste istanze nel segreto dell’alcova (preoccupandosi pertanto di tenere calda un’alcova e vivo un segreto) e nel frattempo dirigono famiglie sanissime, con figli sereni e rispettati nelle loro esigenze educative; di coppie di trentenni come di sessantenni che tengono sull’argomento blog dalla materia incandescente quanto toccante, talvolta scritti meravigliosamente. Pervertiti? Solo se piace a loro, ad entrambi, in assoluta, vigile ed empatica condivisione. Gente che possiede il Verbo? Proprio no, mai vista tutta insieme tanta fragilità consapevolmente messa a nudo, mo’ ci vuole. Criminali? Non direi proprio, e nessuno di questi è il caso della dinamica che avrebbe coinvolto Tiziana, vittima prima del suo fidanzato manipolatore e, in definitiva, aguzzino, e poi della retorica bigotta e sessista del “se l’è cercata”.

«L’uomo reificato ostenta la prova della sua intimità con la merce. Il feticismo della merce raggiunge dei momenti di eccitazione fervente.» E ancora: «Lo spettatore più contempla, meno vive; più accetta di riconoscersi nelle immagini dominanti del bisogno, meno comprende la propria esistenza e il proprio desiderio». È il Guy Debord de “La società dello spettacolo”questo, a ricordarci che il mercato globale ha da tempo realizzato il risultato di colonizzare pure l’immaginario dei rapporti, perché l’immagine è merce, una merce di prima grandezza. Così, dentro una spirale per l’appunto mortale, alla polverizzazione dei confronti, della coscienza e della responsabilità verso l’umanità propria e dell’altro, l’amore liquido di Bauman, ma pure l’eros liquido, le esperienze liquide, tutto espropriato all’insegna della vetrinizzazione, che fa sembrare così comodo ed emotivamente confortante farci “guardare” su Facebook piuttosto che affrontare faccia a faccia una persona; a questi elementi, dicevo, si somma il mercimonio dell’immaginario, del quale facciamo il gioco ogni volta che offriamo i contenuti della nostra vita per le facili soddisfazioni, per far violenza o in cambio di qualche minuto od ora o settimana della celebrità wharoliana. Dall’altro capo di questo delirio c’è la persona umana, ci sono, per l’appunto, “la propria esistenza e il proprio desiderio”, come scrive Debord, proprio e degli altri, che reggono con sempre maggiore difficoltà l’affronto di queste funzionali disumanizzazioni. Le nostre chances di difenderci da tutto questo sono direttamente proporzionali agli strumenti intellettuali ed elaborativi dei quali siamo dotati, e chi è in questo senso meno avvertito soccombe. Ma noi continuiamo ad avere la responsabilità di tutti, di noi stessi e di quelli con cui veniamo in contatto, e attenzione: non il senso di colpa, che è alibi del disimpegno, perché è effetto emotivo paralizzante, e in quella paralisi uno si può fermare e crogiolare. La responsabilità, dico, che è elaborazione intellettuale, presa di coscienza, condivisione profonda, sentimento politico.

In buona sostanza, mi è sembrato che le parole della giornalista americana siano soprattutto utili ad alimentare la presa di coscienza di tutti i contatti “al consumo” nei quali, complici gli strumenti della contemporaneità, quotidianamente caschiamo per noia, solitudine, frenesia, narcisismo o tutte queste cose insieme; tanto più perché alle facilità tecnologiche si sovrappongono le difficoltà storiche e psicologiche che ho provato a ricostruire in precedenza, che snaturano e tradiscono identità e desideri, di genere e non. E dunque il punto non è sdoganare istanze di libertinaggio in ritardo sulla storia, o i diversivi per rinvigorire il sesso delle coppie, figuriamoci. Il punto è tornare a interrogarsi laicamente su relazioni e famiglie, sul rapporto tra sessualità, dimensione emotiva e legame, accettando di sfidarsi a sperimentare, quando tutto il resto cade, quando tutto il resto manca, nuove frontiere nella relazione con l’altro da sé, e prima ancora con sé stessi. Si sta ancora parlando di amore, in definitiva, nel senso più complesso del termine, quella risonanza di riconoscimento che passa necessariamente per un grado più alto di consapevolezza individuale: non incontriamo davvero nessun altro, non conosciamo davvero nient’altro che quello che ri-conosciamo.

A tutti voi che ancora guardate e vi lasciate guardare, guardare dentro, intendo; che non vi scordate di stare umani, che non vi lasciate soli, buon Natale, a voi e a qualunque cosa vi piaccia chiamare “famiglia”.