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“Prima gli Italiani?” La risposta di Selvaggia Lucarelli: “Siete dei miserabili”.

Siamo consapevoli del fatto che questo post di Selvaggia Lucarelli sia un po’ datato: più o meno un giorno e mezzo. Il che, con i tempi del giornalismo moderno, sta a significare un’eternità. Nonostante ciò abbiamo scelto di riportarlo perché sta facendo molto discutere.

Lo riproponiamo anche perché secondo il nostro modo di vedere, la scrittrice centra in pieno diversi argomenti relativi alla questione ‘immigrazione’ e lo fa senza troppi fronzoli spiegando in maniera netta la realtà di alcuni contesti di fame e di disperazione, dopo essersi immersa in essi.

In questi giorni meschini in cui la guerra tra chi è più povero e tra chi è più becero e tra chi è più ignorante e tra chi scrive i titoli e gli editoriali più schifosi sta toccando il suo punto più basso, qualche miserabile con la bava alla bocca ha pensato bene di fare lo screen a un mio commento all’interno di una discussione su dei ragazzi di colore che facevano il bagno in piscina bollati come “stronzi che galleggiano” o commentati coi soliti slogan “prima gli italiani” e di farlo girare sul web come prova regina della mia totale inconsapevolezza della difficile situazione economica di molti connazionali.
Naturalmente, il commento era decontestualizzato e non ne veniva spiegato il senso, mica si poteva riportare la discussione intera, che contava migliaia di interazioni. Mica di poteva perdere l’occasione di aggiungere odio al clima generale.
Comunque. Vado a spiegare cosa è successo.
A chi sosteneva che gli stranieri non vanno aiutati perché tanti italiani stanno morendo di fame, io rispondevo che (in senso letterale) qui non si muore di fame, che bisogna partire da presupposti onesti, che in alcuni paesi da cui questa gente scappa sì, si muore in senso LETTERALE di fame. Facevo, due commenti più giù, l’esempio dei bambini siriani stremati dalla fame, costretti a mangiare petali di rosa. Ne avrei potuto fare altri, naturalmente, di esempi di disperazione nera, ma mi pareva retorico.
Mi sembrava superfluo spiegare ulteriormente che in Italia non si registrano morti per fame e malattie legate alla malnutrizione, e che questo punto di partenza non vuole affatto rimuovere o negare il problema di chi non arriva a fine mese o prende una pensione ridicola. Si parlava di FAME, capito? FAME, non di stipendi miseri, o di gente (ahimè) costretta a chiedere aiuti alla Caritas. Si parlava di gente che non ha nulla, che scappa da fame, guerre, persecuzioni. (chi fruga nell’immondizia- gli anziani soprattutto- spesso si vergogna di chiedere a Caritas e assistenti sociali, che non fanno morire di fame nessuno in questo paese, grazie a Dio)
È anche abbastanza avvilente dover stilare una classifica sui poveri e sulla dignità, lo avrei volentieri evitato, ma la verità è che su questo si gioca la discussione politica degli ultimi anni nonchè la discussione più becera e volgare sui social, su certi giornali e in certe piazze. “Prima noi”. “Loro in piscina e noi a casa”. “Loro coi cellulari ultima generazione e noi col Nokia “. “Loro le case e noi a dormire in macchina”. “Viva l’idrante”. Se volete, voi per primi, stabilire una gerarchia della miseria, allora partite davvero dal gradino più basso.
Perché molti italiani non arrivano a fine mese, molti connazionali dei disperati che arrivano qui (se non affogano in mare o muoiono ammazzati e torturati per strada o di fame o di sete nel tragitto) non arrivano al primo anno di età.
Qualcuno ha poi scritto che io, IO, ho perso il senso della realtà, cosa che mi ha fatto particolarmente sorridere visto che ero reduce da un viaggio in India e mi trovavo in Uzbekistan, luoghi noti nel mondo per il benessere diffuso e generalizzato.
Luoghi che probabilmente nessuno di quelli con la bava alla bocca ha mai visto però Ibiza e Formentera sì, però “tu hai perso il contatto con la realtà”.
Allora fatemi dire una cosa, perché della gentaglia 2.0 in cerca del “ricco” da ghigliottinare in piazza o del pretesto per fare la classifica di chi sta peggio ne ho piene le palle.
Siete dei miserabili. Sì, dei miserabili. Questa ricerca disperata di capri espiatori a cui imputare la causa della vostra miseria (intellettuale, in primis) è patetica. Chi vive una vera situazione di disagio non è sui social a vomitare rabbia, perché ha da inventarsi la giornata, non ha manco ha il Wi-Fi per insultare la Boldrini o cliccare like sulle cagate populiste di Salvini, che vi sta usando (capre) per crearsi un elettorato di gente col forcone.
Prima gli italiani, dite voi. Quali italiani? Specificatelo per cortesia, perché io gli italiani che timbrano i cartellini e vanno a giocare a tennis, che non pagano le tasse, che mi scrivono puttana qualsiasi cosa dica, che esportano la criminalità nel mondo, che riescono a rubare soldi ai centri di accoglienza, che costruiscono e lasciano costruire case che si sbriciolano al primo terremoto, che gioiscono dei terremoti, che riescono a corrompere ogni arteria e capillare di questo paese, ecco, io a questi italiani non ho mica troppa voglia di dare la precedenza, così, a prescindere.
Non abbiamo, noi italiani, un timbro di qualità sulla fronte, così come non ce l’ha chiunque sbarchi qui, ficcatevelo in testa.
Non fate le classifiche, perché gli italiani con le classifiche non sono mai andati troppo forte.
E lasciate perdere la caccia al privilegiato che non sa. Che vive una realtà parallela.
Volete farmi passare per quella scollegata dalla realtà? Vi dice male belli miei. Molto male, capre che non siete altro.
Io a 19 anni ero già fuori di casa. A 18 mi ero già pagata da sola la vacanza dopo la maturità. A Roma ho dormito in sottoscala e per lunghi periodi me la sono cavata con poche migliaia di lire a settimana. Mangiavo latte e merendine a pranzo e un calzone nella pizzeria sotto casa la sera, finché non mi sono ritrovata con una forma d’acne virulenta a 20 anni.
Non ho sposato un uomo ricco, non ho avuto un euro di mantenimento dopo il divorzio, mantengo da sola Leon, aiuto la mia famiglia d’origine perché mio padre ha una pensione bassa, pago una marea di tasse e pago ancora quelle che non riuscii a pagare quando non avevo soldi per campare e avevo una vita incasinata e stupida. Non possiedo più o meno nulla, neanche una casa. Guadagno bene, ma
non sono ricca e non sono neppure qualcosa di vicino alla ricchezza. Non avrò una pensione e non ho idea di cosa ne sarà di me in futuro.
Ho sempre lavorato e lavoro tanto, con passione. Il lavoro non è solo la fabbrica o la miniera, belli miei. E se non lavoro in fabbrica è perché ho il dono di saper scrivere, che ho coltivato con la lettura e gli studi che piacevano a me.
Rispettate il mio lavoro (che non è andare in TV a dire due scemenze, a me ha sempre dato da mangiare la scrittura) come io rispetto il vostro.
Aiuto anche gli altri, quando posso, ma non lo racconto qui. E quando racconto qualcosa qui è per dare una mano ad associazioni e persone in cui credo. Ho realizzato da poco una campagna a sostegno del programma alimentare mondiale, che vedrete. Sono stata in Libano e Iraq con mio figlio e il mio fidanzato perché mi hanno chiesto di raccontare quelle realtà e ho accettato a una condizione ferrea: pagarmi tutto, viaggi e alloggio.
Intendiamoci bene. Non sono migliore di voi, altrimenti sarei Gino o Cecilia Strada o un ragazzo di Terre Des Hommes o un’infermiera in Congo.
Però qualcosa del mondo l’ho vista.
Per questo relativizzo. E mi fa schifo relativizzare la miseria, sia chiaro. È che di fronte a “prima gli italiani” perché la vera miseria è la nostra, vi chiedo di pensare bene a un concetto di miseria che sia un tantino più onesto e universale. Che non vuol dire fottersene degli italiani, vuol dire guardare con occhi diversi chi arriva qui. Vuol dire provare almeno pietà.
Io, fuori dal nostro orticello, ho visto l’anziano in un letto pulito dopo che gli avevano tolto zecche e sanguisughe di dosso.
Il signore che dormiva nel fango sotto i monsoni con una busta di plastica legata in faccia.
La yazida stuprata anche incinta e scappata da Raqqa, che a 20 anni aveva smesso di sperare per sè, e che chiedeva solo un futuro per il figlio, orfano di padre.
I bambini che vivevano tra topi e giocavano sui pali dell’elettricità nei campi in Libano.
I bimbi uzbeki che ti accompagnano nel buio con la loro piccola torcia, per avere qualche centesimo da turisti e sconosciuti che scortano nei vicoli di notte.
Ho visto gente vivere negli spartitraffico in Myanmar e altrove, mamme che spulciavano i figli sul bordo della strada, bimbi giocare nella merda di vacche, baracche su fogne a cielo aperto. Gente china a fare i bisogni per strada, accanto al tappeto in cui dorme e mangia.
Ho visto occhi spenti e occhi sorridenti, nella miseria più nera e spaventosa che potete immaginare. O forse no, non la potete immaginare, perché è molto oltre i nostri parametri.
Mi sono fatta strappare, in un villaggio isolato, occhiali e denaro da donne e bambini coi denti neri e i capelli come paglia, accerchiata da gente che annaspava per galleggiare e ho avuto paura e li ho odiati e sono scappata ma poi mi sono chiesta cosa farei io se stessi annegando e sì, forse mi attaccherei alla testa di qualcuno e lo farei bere, lo affogherei.
Salirei su un barcone, attraverserei il deserto, farei qualsiasi cosa per dare una possibilità a me e a mio figlio, e spererei di trovare uno straccio di compassione dall’altra parte del mondo, quella parte di mondo più fortunata, immensamente più fortunata.
Non ce la faccio a dire “prima io”. Scusate.
E no. Non sono migliore di voi. Per niente. Però io non ho mai cercato nelle persone che stavano peggio di me i colpevoli. E neppure in quelle che stavano meglio di me.
Voi che lo fate, cercate alibi e nemici, per distrarvi da quello che siete. Non dei miseri, ma dei miserabili. E sappiate che tutto questo odio, fa un danno enorme: sposta il problema. Siete milioni col fucile puntato nella direzione sbagliata. Arroganti, miserabili e pure fessi.
Sono buona? Sono buonista? Sì, può essere. Anzi, lo spero. Se voi siete fieri di essere dei miserabili che si voltano dall’altra parte, buon per voi.